Il mio Instagram 2016

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Le foto più votate del 2016: 4 fatte a Bologna, una a Milano, una nella campagna senese, una a Selci e una a Siena centro

La mia attività social è più o meno di servizio ai miei lavori per twitter e facebook e più dedicata alle mie passioni su Instagram: la mia passione, ovviamente, è il cazzeggio.

Quest’anno ho postato circa 200 foto in meno rispetto all’anno scorso – 682 contro le 876 del 2015 – soprattutto perchè non ci sono più quartieri romani con lavori di street art vergini per me e anche perchè ogni tanto devo lavorare, ma ho raccolto quasi 16 mila like in più (51 mila lo scorso anno, 67 mila nel 2016)… insomma se fotografo meno, forse faccio delle foto che piacciono di più… anche se non credo che sia proprio così, i social non funzionano su criteri qualitativi…

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Le più votate dello scorso anno erano scatti fatti a: uno a Procida, due a Weston Super Mare, uno a Bristol, cinque a Roma.

In ogni caso: Buon 2017

 

Smart, inchiesta sulle reti

Il patron di Google di recente ha calcolato che ogni quarantott’ore
mettiamo in circolo in rete una quantità di contenuti
pari a quella creata dalla nascita dell’umanità fino al 2003.
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Da un po’ di tempo avevo in mente un concetto che non riuscivo a esplicitare in forma compiuta, ma fortunatamente capita ogni tanto che ci sia qualcuno che dice meglio di te le cose e soprattutto le studia e le approfondisce dando una struttura (a volte anche scientifica) ai pensieri. Il mio pensiero era sostanzialmente questo: non è vero che internet spoglia di identità i territori, le identità o le idee. Internet è invece uno strumento che se usato con intelligenza, visione e capacità imprenditoriale può esaltare e potenziare gli elementi caratteristici di un territorio. Ovviamente bisogna intendersi: spesso il carattere localistico di un territori può essere definito dalla lingua che viene parlata, altre volte da confini naturali, altri ancora le barriere possono essere definite dalla diffusione dei device con cui i contenuti sono distribuiti.
In soccorso a questa che non era un’idea compiuta né verificata è arrivata la pubblicazione di un libro davvero importante: Smart, inchiesta sulle reti di Frederic Martel, in Italia edito da Feltrinelli.
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Cercherò, usando soprattutto le parole di Martel, che per scrivere questo libro ha visitato una cinquantina di paesi e ha parlato con centinaia di persone, di spiegare la mia tesi. Il libro di Martel è un’operazione che si fa sempre più raramente e che si chiama un’inchiesta sul campo e – dopo il suo libro Mainstream, dedicato all’industria dei contenuti della old economy, che mi era molto piaciuto –  ha raggiunto molti centri decisionali, molti protagonisti del web e tanti luoghi dove si definiscono le tendenze del mercato e della fruizione delle internet che ci sono nel mondo.
Il libro parte da qui: […] contrariamente a quanto si creda, internet e le questioni del digitale non sono fenomeni di natura prettamente globale. Sono legati al territorio; sono locali. Uomini, donne, informazioni, e-commerce, applicazioni, mappe, social network sono uniti tra loro da legami, materiali e reali. E vuole dimostrare che: Il futuro di internet non è globale, ma è radicato in uno specifico territorio. Non è globalizzato, è localizzato.
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La prima tappa è la Silicon Valley, per andare a cercare i luoghi dell’innovazione, le app che stanno avendo successo, le idee che sono diventate realtà ed ora grandi player del mercato globale, le personalità che hanno segnato il nostro tempo digitale. E’ questo il territorio dell’innovazione (quel fazzoletto di territorio che sta attorno alla città di San Francisco) e i soggetti del cambiamento sono la start up. “Esiste una tendenza di fondo: avviare una start-up costa sempre meno, grazie al software libero e al cloud, inoltre è sempre più facile trovare i soldi. La Silicon Valley sta vivendo un nuovo boom e il ruolo dei venture capitalist, in precedenza indispensabili per le procedure di finanziamento, sta cambiando. Lo sviluppo dello smartphone e l’inesauribile mercato di applicazioni creatosi in questa zona hanno anch’essi modificato lo scenario.”
In sostanza le tecnologie, il loro successo e la loro diffusione impongono agli imprenditori di essere sempre un passo avanti e non adeguarsi al cambiamento, ma avere la capacità di reinventarsi continuamente. Per farlo c’è bisogno di un “microclima” favorevole, fatto di possibilità di trovare le idee, la volontà di andare avanti sapendo che le difficoltà saranno enormi, avere la possibilità di presentare le proprie idee a chi ha mentalità aperta e capacità di fornire fiducia e finanziamenti adeguati. Ma in realtà non sono solo i soldi a muovere l’innovazione, ma anche una tensione ideale che si fa fatica a descrivere. Il posto migliore del mondo per per realizzare le proprie idee è quello là.
Il confine tra piccole e grandi aziende si confonde, poiché le start-up hanno bisogno del denaro dei colossi della rete e questi ultimi hanno bisogno delle imprese innovative più piccole.” Google e Facebook devono costantemente esplorare nuove idee e sono le start-up a farsene carico. “Dal canto loro queste start-up non sono motivate unicamente dal denaro, come spesso si crede. Qui, a San Francisco, ci sono molti imprenditori un po’ folli con un unico obiettivo: creare un mondo migliore. Sembra stupido, ma succede, accade veramente. Vogliono risolvere i problemi, trovare soluzioni.
L’età, per forza di cose è una barriera. Perché per riuscire si deve passare molto tempo a farsi il culo. La cultura geek, la cultura hacker, la controcultura è a San Francisco. Chi vuole essere smart e creativo viene qui, nella capitale degli hippie e dei gay. E abbiamo tutti diversi lavori: un lavoro che ci fa mangiare; una start-up in cui investiamo i soldi; infine, un ‘side job’ in cui si investe tempo per fare davvero ciò che si ama.
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Ma quello che succede nella California del Nord non è il solo caso nel mondo. Un esempio che secondo me lascia a bocca aperta per i  numeri che produce, per le prospettive che ci sono e per come si sta sviluppando è quello cinese. Clonare, copiare esattamente ciò che si faceva altrove, è stata la soluzione inventata dalla Cina per risolvere il deficit di creatività unito a un altro problema fondamentale: come costruire una potente rete internet senza essere dominati dagli americani? Come innovare quando mancano le idee? La soluzione si chiama Renren (pronunciato Jenjen, il Facebook cinese), Youku (YouTube), QQ (Msn), Weibo (Twitter), Beidou (Gps), Meituan (Groupon), Weixin (WhatsApp) e soprattutto Baidu (pronunciato By-doo, un motore di ricerca che assomiglia a Google). I “modelli originali” americani sono stati vietati, ovvero bloccati e censurati, o acquisiti.
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Lo Youtube cinese, che si chiama Youku

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Il Google cinese, che si chiama Baidu

Il sistema cinese autoritario (non totalitario) ha trovato forme di censura che non rappresentano dei limiti economici alla crescita della rete, basti vedere quanto è diventato forte un colosso dell’e-commerce come Alibaba, paragonabile per dimensioni ad Amazon (attivo anche dall’Italia). Martel racconta anche la vita dei dissidenti, le forme di aggiramento dei sistemi di sorveglianza ma rivela anche la fragilità di questi movimenti che ovviamente noi occidentali vediamo con grande simpatia, ma che appaiono residuali rispetto al sistema che si è consolidato in questi ventisei anni, vale a dire dalla repressione del giugno del 1989, in piazza Tien a Men. In sostanza: la censura funziona come una patente a punti. Ti si fa capire che ci sono le possibilità di punirti, in un modo molto sofisticato. Un sistema fatto da migliaia di collaboratori diffusi nel territorio e – anche perché i tempi sono cambiati – per concezione assai diverso dai vecchi sistemai di controllo del blocco sovietico (ricordate Le vite degli altri?).
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Problemi del tutto diversi sono nel secondo stato più popoloso del mondo: In India, tutti credono di essere unici, ma non è affatto così. Molte persone portano lo stesso nome e cognome e hanno la stessa data di nascita. Ci sono 1,3 miliardi di persone ed è difficile non solo essere unici, ma dimostrare che si esiste.
Il più grande progetto di digitalizzazione di un paese sta avvenendo proprio in India con l’introduzione della carta di identità unica e per un paese di quasi due miliardi di persone è una cosa pazzesca. L’India è il paese che produce più ingegneri di lingua inglese al di fuori degli Stati Uniti, ed è questo il suo capitale più prezioso: ogni anno 4,3 milioni di studenti indiani conseguono un diploma post-laurea, di cui 1,5 milioni di ingegneri, informatici o tecnici. Eppure il paese non intende competere con la Cina, che resta migliore sotto il profilo della produzione di dispositivi, computer, telefoni o tablet: “Alla Cina l’hardware, all’India il software,” […] L’India ha anche il vantaggio di avere una radicata emigrazione nella Silicon Valley, cosa che favorisce gli scambi e ha creato un’ampia comunità di ingegneri con doppia nazionalità e un’esperienza globale.
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Ma il paese più sorprendente è quello delle start up: Israele. In una moderna via del centro di Tel Aviv, Viale Rothschild, ci sono edifici alti e moderni, in vetro dove hanno sede quasi seicento start-up.
Questo fenomeno non si riesce a spiegare. Israele è un paese con poche risorse naturali, dobbiamo inventarci tutto da noi. L’innovazione e l’imprenditorialità sono condizioni di sopravvivenza. Poi c’è l’esercito, che ha giocato un ruolo chiave all’interno del sistema tecnologico locale. Infine, c’è il nostro legame con gli Stati Uniti: tutti sognano che la loro start-up possa essere acquisita da un’azienda americana.
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Di grande interesse è anche il tema del superiore livello di istruzione che si raggiunge in Israele e l’influenza del servizio militare obbligatorio di tre anni che forma la mentalità dei giovani. In una testimonianza si legge: “In Francia mi insegnavano ad usare il PowerPoint, qui sotto le armi costruisco robot”. L’autore si spinge in una ardita immagine per spiegare quali siano gli ingredienti per uscire vincenti da questa darwiniana  lotta per ottenere il successo: “come per i pionieri del Wild Wild West americano, si tratta di una miscela di audacia e di spirito di conquista, impersonato da uomini che si assumono qualsiasi rischio e si fanno pochi scrupoli pur di perseguire il loro ideale”.
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Martel è andato anche in Kenia, a Kibera, a cercare #Mchanganyiko (che in lingua swahili significa ‘diversità’) e in Africa come in tutto il resto del mondo. La gente qui vive nel presente, non si proietta nel futuro. Bisogna parlare loro di ciò che riguarda l’oggi.
Qui, naturamente, anche il modello si adegua alle tecnologie diffuse e prende forma un esperimento interessante l’”informazione comunitaria”. In sostanza nella baraccopoli keniota esiste una forme di “sms reporting”: quando si ha un’informazione importante o si vede qualcosa di strano, si invia un un messaggino a Voice of Kibera con un codice di allerta e viene pubblicato sul blog… e così queste notizie si diffondono rapidamente tra gli abitanti. Infatti il punto è anche che
In Kenya è in corso la rivoluzione del telefono cellulare, il 70 per cento della popolazione ne ha uno. Il 90 per cento del traffico su internet si sviluppa attraverso il telefono. Ormai ci sono smartphone a 8000 shilling (circa 70 euro). Sono Nokia o Huawei con sistema operativo Android. Li chiamiamo minismartphone e tutti li vogliono. I kenioti sono pronti a molti sacrifici per avere un buon telefono o per accedere direttamente a internet. A volte si privano del cibo o dell’energia elettrica per questo. Presto avranno tutti uno smartphone.
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Il giro del mondo continua ancora per definire i temi della regolamentazione di internet (facendone un’interessante storia della regolamentazione dalle origini fino ai temi aperti oggi negli Stati Uniti) e arriva anche in Europa dove l’inchiesta approfondisce elementi più tecnici. Interessante, ma sinceramente meno efficace nella spiegazione e anche negli esempi, sono le suggestioni sul futuro del giornalismo culturale. In ogni caso un libro da leggere e da consultare di tanto in tanto, come se fosse una matrice per confrontare con le esperienze di successo le proprie idee.

World Digital Librery

Il progetto WDL (World Digital Librery) è la cosa più ambiziosa che si trova in giro per il web. Si tratta di un’operazione sostenuta dall’Unesco e da Google e di fatto è la moderna biblioteca di Alessandria, anche se ancora molto c’è da fare per avere un peso paragonabile (anche se in un altro mondo). Anche questo sito e una miniera di suggestioni e di cose interessanti in Smart, inchiesta sulle reti, di Frederic Martel in italia edito da Feltrinelli. Un testo fondamentale per chi si occupa di informazione, cultura, televisione… o anche solo per chi è interessato a dove va il mondo.

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Una carta dell’Italia del 1890 pubblicata in America mostra il nostro Paese dopo la sua unificazione… http://www.wdl.org/en/item/414/view/1/1/

Mauro Scrobogna

La foto che ha scattato Mauro Scrobogna alla fine dell’intervista di Giovanni Floris a Silvio Berlusconi, ieri sera a Ballarò farà epoca. E’ l’immagine della debolezza di un signore che ha fatto il suo tempo e che ha trovato davanti a se un giornalista capace di entrare nel merito dei problemi, di smascherare i buff e di cercare di capire davvero cosa sta dietro le promesse elettorali. Il punto sta proprio qui: questa campagna elettorale è stata tenuta fuori dalla realtà e il “dibattito politico” si è avviluppato attorno ad un solo tema: quello dell’IMU e delle politiche fiscali. PD e Sel in qualche modo hanno cercato di parlare di lavoro, ma evocandolo come problema, senza avere una proposta forte da mettere al centro dell’attenzione. Ancora una volta – come succede da 19 anni a questa parte – tutto il circo mediatico si è fatto incantare dalle presunte capacità maieutiche del Presidente di Mediaset e, per comodità, per convenzione, per pigrizia, per mancanza di professionalità, per fare cassetta (o audience) ai giornalisti è andata bene così. Alla fine il prodotto Berlusconi vende bene e il resto è un “buco nero” che spesso non tiene. Ma siamo alla fine. Lo dice lo stesso Mr B. e la pagina del libro della nostra storia che non si vuole girare ormai l’abbiamo riletta in ogni suo carattere e, vada come vada, questo è l’ultimo voto del secolo scorso. Il vecchio cerca di resistere al nuovo con tutti i mezzi. Anche con un pugno. Ma è un pugno stanco e non andrà a segno.

Quei Colpi di Lupara

Chi era Peppe Tizian, uomo e padre?

Un instancabile sognatore, ma con i piedi sempre per terra. Affettuoso e duro quando serviva. Amante delle moto e dei motori. Sentiva la giustizia sociale come un principio da cui la società non poteva prescindere. Come padre per i pochi anni che mi ha tenuto per mano è stato capace di trasmettermi coraggio e onestà. E con la sua morte mi ha insegnato a resistere.

Il 23 ottobre 1989, a colpi di lupara, veniva assassinato tuo padre, Peppe Tizian mentre da Locri rientrava a Bovalino dopo una giornata di lavoro. Quanti anni avevi? Cosa ricordi o cosa ti è stato raccontato di quella sera?

Avevo 7 anni, ricordo poco e niente. Immagini confuse, una nebulosa di ricordi. Ricordo che mi è stato raccontato subito come un incidente, poi la verità. Terribile. (IoMiChiamoGiovanniTizian)

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Giovanni Tizian

Giovanni Tizian mi è molto simpatico. E’ una persona riservata, è timido, educatissimo ed è quello che si immagina possa essere un giornalista della vecchia scuola. Sul posto di lavoro è un secchione: studia tutto, ogni particolare, ricorda a memoria gli atti processuali ed è una miniera di informazioni, un’enciclopedia viaggiante. Basta leggere qualche pagina di Gotica che ti accorgi con chi hai a che fare: uno serio, scrupoloso, un lavoratore in profondità.

Oggi, dopo indagini che proseguivano da tanti mesi, è stato arrestato Nicola Femia (sospettato di essere un importante boss della ‘ndrangheta) e Guido Torello. Tra gli elementi che hanno portato all’arresto dei due (insieme ad alti 17 sospetti membri di ‘ndrine) c’è un’intercettazione resa nota dagli inquirenti che lascia basiti. Si fa riferimento esplicito agli articoli che Giovanni stava scrivendo sulla “Gazzetta di Modena” sul racket del gioco d’azzardo. “O la smette o gli sparo in bocca“, dice Torello. La registrazione è agghiacciante, ma lo è ancora di più se si considera la storia di questo ragazzo che ha vissuto braccato dalla violenza mafiosa. Prima con il rogo della fabbrica del nonno, che si opponeva al poteri criminale della Locride e non voleva pagare il pizzo, poi nella forma più tragica, quando era ancora un bambino di 7 anni e non vide più tornare a casa il padre, vittima di un agguato di ‘ndrangheta.

Cosa si può dire di fronte a una storia come questa? Coraggio! Non mollare: una vita migliore è possibile perchè le mafie si possono sconfiggere. Sì si può provare a dire qualcosa di questo genere… Ma, quasi sempre, è lui che incoraggia e sostiene chi lo guarda sgomento e senza parole. Lui che usa la parola scritta sul blog, sul giornale, sui libri. Ora anche in Germania, dove la ‘ndrangheta ha colpito a Duisburg e dove la versione tedesca suo libro sta vendendo molto bene.

Lui e la sua compagna sono persone notevoli condannate a non rientrare nella loro abitazione in modo spensierato, c’è sempre un agente che mette la chiave nella toppa, che entra in casa prima di loro per controllare che tutto sia a posto. C’è sempre qualcuno che li accompagna sotto casa quando vanno a cena dagli amici. Sì un’altro modo di vivere c’è e oggi, con l’arresto di chi voleva sparare in bocca a questo ragazzo, c’è anche una speranza in più.

Il Tramonto del Ciclismo

La confessione di Lance Armstrong da Ophra Winfrey l’hanno vista in 4 milioni e 300 mila spettatori. Io sono convinto che se la stessa intervista fosse stata concessa a Fabio Fazio in Italia avrebbe fatto più o meno gli stessi numeri. E’ vero che l’interesse per il ciclismo, negli Stati Uniti, è molto cresciuto negli ultimi 20 anni, ma evidentemente non è uno sport molto popolare e forse non è percepito come così scandaloso che il più forte ciclista di un’epoca si sia dopato. In pratica si da quasi per scontato che i ciclisti siano dopati per definizione e anche una confessione così clamorosa non fa poi così tanta impressione. Gli sport di grande sofferenza (si è partiti dalla boxe) non accendono più gli entusiasmi che hanno fatto vivere in anni passati e temo che sempre di più i campioni degli sport più faticosi verrano da paesi che possiamo chiamare emergenti, in particolare dalla Cina. Il ciclismo però è diverso: non c’è altro sport che vive di epiche imprese sulle montagne di Italia, Francia e forse anche di Spagna. C’è la storia e c’è la leggenda e, se vogliamo essere sinceri, è molto probabile che il doping sia stato utilizzato in molte più occasioni di quelle che sono state indagate dai Nas o dalla Guardia di Finanza. Per questo si dovrebbe cancellare questo sport? Si dovrebbe smettere di seguire la fatica mostruosa di questi ragazzi che sfidano le montagne? Sarà perche nella Romagna si cresce con la bicicletta sotto il letto, ma io tendo a pensare che non sempre si è agito con equità e in troppe occasioni si sono chiusi entrambi gli occhi ed in altre si è passati ad un rigore senza appello. Insomma bisogna salvare il ciclismo e azzerare la situazione, ripartendo da capo. Servono campioni, servono percorsi adeguati nelle corse a tappe, servono dirigenti capaci e coraggiosi, regole chiare e trasparenti. E anche giornalisti capaci di raccontare questo sport.

Poi Una Volta

Incontro W3C Boston

Poi una volta, dal 12 al 17 febbraio del 2000, con Lucio Picci facemmo un viaggio a Los Angeles, là dove c’era stato il giorno 1 di internet, ed a Boston al W3C ed incontrammo un po’ di persone. Qui siamo con il gruppo colui che qualche tempo dopo diverrà Sir, Tim Berners-Lee. Ricordo Ian Jacobs, che ci ha affiancato e ci ha permesso di arrivare a questo incontro, agevolando l’ingresso dell’ufficio del Primo Ministro italiano come membro del consorzio. Fu la prima volta nella storia che succedeva una cosa del genere…

Compagni!

(Il 21 giugno del 2010 sui giornali c’era un florilegio di pezzi per l’intervento di Fabrizio Gifuni dove usò tra gli applausi la parola “Compagni”, il migliore di tutti, come spesso capita era il pezzo di Filippo Ceccarelli. Il mio commento non era un gran che, ma le foto e i video meritavano)

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Dopo di che la parola fu in qualche modo subissata da un’onda di varia e beffarda dissacrazione, dai “Compagni di merende” (copyright Filippo Mancuso) fino al “Compagno Fini”. Ma nessun colpo di grazia, come si intende anche oggi, ha impedito che nei tronconi costituitivi dell’imminente Pd, partito subito disponibile a spendersi e lacerarsi nelle più bislacche e autolesionistiche controversie, si riaprisse periodicamente la questione dei compagni o non compagni. In questo senso vale rammentare che nel 2007 il leader della Margherita Francesco Rutelli concesse il suo benestare all’uso di “compagno”, ma non senza aver commissionato un’indagine sulla parola nelle Sacre Scritture. La squadretta di filologi rutelliani scovò oltre cento ricorrenze. La più significativa era nel libro del Siracide: “Non è forse un grande dolore quando il compagno diventa un nemico?”. Che si adatti abbastanza bene proprio a Rutelli, uscito dal Pd, dice molto sul potere delle parole e sulle vendette che a volte tengono in serbo.(Ceccarelli su Repubblica)

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Compagno è un modo bellissimo di chiamarsi. Oggi lo ostentano gli snob come me (ma dietro c’è una dose di ironia e di nostalgia che non offusca la bellezza della parola). E’ un termine che ha perso il suo calore, ma non può essere meno affiasciante. Si chiamavano compagni tra loro i partigiani, si chiamano “compagni di scuola” quelli che insieme formano la propria cultura e il proprio modo di pensare. Sono compagni quelli che raggiungono grandi obiettivi, sportivi o politici che siano. Certo c’è la coltre di nebbia e di freddo dei “compagni sovietici” a fare paura, ma ci sono i compagni di squadra, i compagni di corso, i compagni di lotta… Il fatto che sia una parola desueta non vuole dire che debba per forza essere morta. Chi ha avuto una storia non dimentica la propria terra, non ha tranciato tutte le proprie radici. Per questo se sente l’odore della propria identità passata si appassiona, si scalda, applaude. Fa strano, tra le altre cose, che a ridestare il fuoco della passione sia una parola pronunciata da un attore. Quasi che la politica si vergogni e lasci tutto sotto traccia, cacciando la polvere sotto il tappeto. Ma gli stessi che magari hanno applaudito tiepidamente, chiacchierando fuori dall’ufficialità, dicono nei corridoi cose molto più forti di quelle che emergono dalle relazioni e dagli interventi pubblici. Coraggio, Compagni del PD, scrollatevi la polvere dalle spalle e datevi una mossa.

Cercando le foto per questo post scopro che ne I Compagni di Mario Monicelli c’era anche una che non diverrà attrice, ma sarà “solo” Raffaella Carrà, una compagna che nelle vittorie elettoriali del PCI degli anni 70 andava a festeggiare sotto la terrazza di Via delle Botteghe Oscure…